Si informa che il Ministero del Lavoro ha pubblicato la seguente FAQ di chiarimento sulle dimissioni per fatti concludenti, di cui all’art. 19 dalla legge n. 203/2024 (c.d. Collegato lavoro, cfr., da ultimo, comunicazione Ance del 22 aprile scorso):
“L’art. 19 della legge 203/’24 prevede che l’assenza ingiustificata per oltre 15 giorni possa essere considerata dimissione di fatto. Le disposizioni del CCNL sulle assenze ingiustificate possono dar luogo a dimissioni di fatto anziché ad un licenziamento?
No. La circolare ministeriale n. 6/2025 ha, infatti, chiarito che le eventuali previsioni della contrattazione collettiva devono essere espressamente riferite a questa nuova fattispecie ed il termine eventualmente individuato per legittimare la risoluzione del rapporto per comportamento concludente non deve essere inferiore a quello individuato dalla legge (almeno 15 giorni).
Ciò in quanto elemento essenziale della risoluzione per fatti concludenti è il silenzio del lavoratore, che non deve aver fornito alcun motivo dell’assenza. Conseguentemente, è ragionevole ritenere la necessità di un termine più ampio rispetto ai pochi giorni già previsti dai contratti collettivi per il licenziamento, perché in quel caso la procedura di garanzia prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori consente lo scrutinio delle opposte ragioni ed il controllo di legittimità delle decisioni. Nell’ipotesi delle dimissioni di fatto, invece, anche per evitare un incremento del contenzioso legato a tale disposizione, è ragionevole fare affidamento su un termine più ampio, che possa confermare in modo inequivoco l’effettiva volontà del lavoratore di interrompere definitivamente il rapporto.
La lettura fornita nella circolare n. 6/2025 non appare superata dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che – attenendosi al petitum della controversia – ha peraltro adottato un provvedimento di reintegrazione, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e negando completamente la configurabilità delle dimissioni di fatto nel caso concreto.
Al riguardo va chiarito, in termini generali, che il legislatore, all’art. 19 del collegato lavoro, non ha formulato un richiamo ai termini previsti dalla contrattazione collettiva in materia di licenziamento riferendosi, invero, al “termine previsto dal contratto collettivo” (ossia per il caso di specie). Laddove avesse voluto intendere che il termine era da considerarsi quello previsto per il licenziamento lo avrebbe esplicitamente detto.
Nel silenzio del legislatore il termine cui la norma fa riferimento non può che essere quello che la contrattazione collettiva dovrà prevedere per lo specifico caso di risoluzione di rapporto per fatti concludenti del lavoratore.
È principio generale di sistema che in mancanza di previsione esplicita le norme si interpretino in favor della parte più debole che nel rapporto di lavoro è evidentemente il lavoratore.
In mancanza di contrattazione collettiva al riguardo il termine di salvaguardia non può che essere quello che il legislatore ha inserito con la novella dell’articolo 26 del decreto legislativo 151 del 2015 al comma 7 bis”.